Narrare il Campo profughi: i bambini palestinesi come difesa della comunità sottoposta a violenza militare .

Narrare i gruppi. Etnografie dell’interazione quotidiana. Anno IV, Vol. 2, Settembre 2009 gruppi nella clinica


Narrare il Campo profughi: i bambini palestinesi come  difesa della comunità sottoposta a violenza militare . Guido Veronese1, Mahmud Said2, Marco Castiglioni3


 


Riassunto


L’articolo esplora alcune pratiche di oppressione interne e esterne che possono


creare alcuni seri rischi alla salute fisica e psicologica dei bambini Palestinesi.


Tre storie tipiche di bambini intervistati nel campo profughi di Jenin sono state sottoposte


ad analisi del contenuto. I temi emergenti dall’analisi includono il bisogno


di “redimere” i nonni e i genitori (depressi, preoccupati, senza speranza), scarsa tolleranza


della condizione di imprigionamento e di costrizione in spazi ristretti, bisogno


di spazi di gioco, accelerazione attraverso la violenza dei riti di passaggio


all’adultita. Le condizioni attuali dei bambini, fanno presupporre una possibile adesione


ai gruppi combattenti. Cio non significa che le famiglie incoraggino i figli ad


aderire alla guerriglia o ad atti terroristici. Motivazioni a pratiche pericolose e fattori


di rischio sono discussi.


Parole-chiave: bambini palestinesi; narrazioni; violenza militare.


1 Psicologo, Psicoterapeuta Sistemico-relazionale, Assegnista di ricerca.


Dipartimento di scienze umane “R. Massa”, Universita Milano Bicocca.


2 Psicologo, Psicoterapeuta, esperto in Truma and Emergency Interventions. Physicians for Human


Rights (Israele), Unicef, Istituto Al Galeele, Nazareth (Israele).


3 Prof. Associato di Psicologia Clinica, Dipartimento di scienze umane “R. Massa”, Universita Milano


Bicocca.


gruppi nella clinica


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Narrating Refugee Camp: the Palestinian Children as defence of the community


under milary violence


Summary


This paper aims to explore some internal and external oppressive practices


that create serious risks to the physical and psychological health of Palestinian children.


The typical stories of three children interviewed at Jenin refugee camp are


subjected to content analyis. Key themes emerging from the analysis include the


need to “redeem” grandparents and parents (depressed, preoccupied, without


hope), intolerance of imprisonment and being coerced into confined spaces, the


need for space to play in, the acceleration, through violence, of the rite of passage


towards adulthood. The current conditions endured by the children of the refugee


camp make you imagining a possible agreement to fighting groups in adolescence


or adulthood. This does not mean that families encourage their children to engage


in guerrilla warfare or other terrorist acts. The motivations leading to dangerous


practices and risk factors are discussed.


Key-words: palestinian children; narratives; military violence.


Introduzione


Il presente lavoro tratta di alcuni aspetti delle condizioni di vita e di crescita dei


bambini palestinesi nel campo profughi di Jenin in West Bank attraverso un’analisi


etnografica e qualitativa di storie raccolte sul campo (Barber, 2008a; Beck, 2005). In


particolare esso si focalizza su una condotta rischiosa tipica di questi bambini: il


“gioco” dell’inseguimento dei carri armati dell’esercito israeliano che quotidianamente


occupa le strade del campo profughi (Graham, 2003).


Il dibattito tra orientamenti teorici psichiatrici e socio-ecologici fornisce differenti


visioni del problema del benessere psicologico dei bambini che crescono in contesti


di guerra e violenza politica (Barber, Schluterman, 2008; Sagi-Schwartz, Seginer, &


Abdeen, 2008).


La letteratura psichiatrica pone generalmente l’accento sul funzionamento patologico


della popolazione infantile che vive in contesti sociali violenti. Numerose ricerche


descrivono i bambini e gli adolescenti che crescono in tali contesti come aggressivi


e impulsivi (Barber, Schluterman, 2008; Sibai, Tohme, Beydoun, Kanaan,


Sibai, 2008; Quota, Punamaki, Miller, El-Serraj, 2008; Tremblay, 2000; Fantuzzo,


Boruch, Beriama, & Atkins, 1997; Bandura, 1973), rilevando altresi come condotte


di rischio e comportamenti aggressivi si correlino a rischi per la salute fisica e mentale


(Baker, 2008; Hill, 2002; Garbarino, & Kostelny, 1996; Millstein, Irwin & Adler,


1992). Altre ricerche condotte in contesti poveri e di guerra associano i disturbi


trauma-correlati a disturbi dell’apprendimento (McNamara, Vervaeke, Villoughby,


2008; Finzi-Dottan, Dekela, Lavic, Su'alid, 2006; Levendosky, Huth-


Bocks, Semel & Shapiro, 2002; Armsworth, & Holaday, 1993).


Questi dati sono confermati nella popolazione palestinese, sottoposta dal 2000 (Al


Aqsa Intifada) fino ad oggi a violenza militare (Khamis, 2008; Quota, Punamaki &


Guido Veronese, Mahmud Said, Marco Castiglioni


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El-Sarraj, 2008; Thabet, Tawahina, El-Serraj, Vostanis, 2008; Lavi, Solomon, 2005).


Da uno studio condotto in Cisgiordania emerge come la vulnerabilita a disturbi psicopatologici


sia particolarmente elevata nei bambini: nel 2000 il 42% della popolazione


infantile era diagnosticata (Zakrison, Shanen, Mortaja & Hamel, 2004). Le


diagnosi psichiatriche piu comunemente riscontrate comprendono disturbi emotivo-


comportamentali, disturbi trauma-correlati -come sindromi post-traumatiche


moderate e severe-, disturbi della condotta e dell’apprendimento (Arafat, Boothby,


2004; Miller, El-Masri, Allodi, Quota, 1999; Zakrison, Shanen, Mortaja & Hamel,


2004). Ne emerge un’immagine dell’infanzia palestinese come fortemente compromessa,


come se si trattasse di generazioni perdute, prostrate da psicopatologie, destinate


a reagire alla violenza con la violenza (Quota, Punamaki, Miller, El-Serraj,


2007; Punamaki, 2008; Thabet et al., 2008; Khamis, 2006; Quota, Punamaki, El-


Serraj, 1995).


Un secondo filone di ricerca considera la famiglia come fattore di rischio o protezione


allo sviluppo di psicopatologia nei bambini e nei giovani (Quota, Punamaki &


El- Sarraj, 2008; Aisenberg & Herrenkohl, 2008; Hasanović, Sinanović, Selimbašić,


Pajević, and Avdibegović, 2006; Barber, 1999). La famiglia regola comportamenti a


rischio e comportamenti violenti nei bambini e negli adolescenti: quanto piu essa


non riesce a rispondere alle incertezze del contesto (violenza, poverta, insicurezza,


ecc.), tanto piu i bambini sono esposti a rischi per la salute fisica e mentale (Ramin,


Wick, Halileh, Hassan-Bitar, Watt, & Khawaja, 2009; Punamaki, 2008; Jablonska, &


Lindberg, 2007). La famiglia puo favorire resilienza nel bambino, quando riesce a


far fronte alla preoccupazione e alle oggettive condizioni di incertezza, supportando


i bambini nel confronto con traumi e deprivazioni (Ungar, 2008). La preoccupazione


per i figli produce esiti opposti in relazione al supporto genitoriale: reazioni parentali


coercitive e punitive favoriscono nei bambini aggiustamenti negativi; cure


parentali protettive e amorevoli producono aggiustamenti positivi e mobilitazione di


risorse cognitive creative (Quota, Punamaki, Miller, & El-Serraj, 2007; Punamaki,


2008).


Nonostante l’apertura ai contesti di apprendimento, anche la letteratura che studia


la famiglia e la sua funzione nel mantenimento o nella soluzione del disagio pare


interessarsi prevalentemente del malfunzionamento del bambino, stabilendo un


rapporto di stretta correlazione fra condizioni familiari e sviluppo di psicopatologie


(Quota, Punamaki & El- Sarraj, 2008; Kiser, & Black, 2005).


Diversamente un approccio socio-ecologico considera le reazioni emotive, comportamentali


e psicologiche alla violenza politica come un fenomeno complesso in cui


forze dinamiche, politiche, culturali, sociali ed economiche assumono sempre maggior


peso (Barber, 2008b; Boothby, Strang, & Wessels, 2006). Le reazioni e gli effetti


del trauma sull’individuo sono riletti nel piu ampio contesto di sviluppo del bambino:


condotte che in altri contesti vengono catalogate come maladattive, in un


contesto di violenza militare possono essere funzionali a compiti di adattamento


specifici. Ad es. secondo Belsky (2008), reazioni depressive in un contesto in cui


ogni via di fuga sicura e preclusa, possono essere adattive in quanto aumentano la


desensibilizzazione all’attacco nemico; reazioni ansiose possono facilitare la fuga in


situazioni di pericolo; infine comportamenti aggressivi, possono essere una tattica di


autodifesa o di offesa soprattutto in situazioni in cui ogni via di fuga e preclusa.


La complessita dei funzionamenti nei bambini coinvolti in scenari di guerra non


consente dunque interpretazioni definitive.


gruppi nella clinica


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La capacita di un contesto sociale di attribuire senso, spiegare i fatti, la logica e la


stessa legittimita del conflitto, ha rilevanza critica nel favorire adattamento o disadattamento


dei giovani alla violenza politica. La partecipazione attiva e la lotta contro


un nemico definito e conosciuto forniscono ai giovani strumenti utili


nell’affrontare il trauma e consentono un buon aggiustamento in termini di adattamento


sociale e psicologico (Barber, 2008c, d). Secondo Punamaki, Quota e El-


Serraj (2001) l’impegno politico e il coinvolgimento attivo sono mediatori tra esposizione


alla guerra e alti livelli di benessere.


La tesi qui sostenuta e che un approccio socio-ecologico consente di ridefinire il fenomeno


dell’inseguimento dei carri armati alla luce di un piu ampio sistema di significati


e di attribuire ad esso un senso, al di la della tradizionale nosografia psichiatrica.


Quest’ultima tende ad ascrivere tale condotta alla sfera della patologia o del disadattamento


sociale. Essa rischia pertanto di confinare i bambini del campo profughi


di Jenin nella posizione passiva di vittime e di etichettarli come pazienti cronici


(Belsky, 2008).


Il campo profughi di Jenin


Il campo profughi di Jenin fu creato nel 1953 su 373 dunums (unita di misura corrispondente


a circa un km quadrato). La citta di Jenin si trova a circa venti chilometri


da Nazareth: superato un primo check-point, si entra in Cisgiordania; un secondo


check-point - Sabah el Kher, in arabo “buon mattino”, introduce alla citta di Jenin.


Un lungo viale conduce al campo profughi. Il campo, cresciuto in maniera disordinata,


e densamente popolato ed e quasi del tutto privo di servizi. Secondo i dati ottenuti


dall’UNRWA (United Nations Relief and Work Administration) la popolazione


del campo profughi si aggira intorno alle sedicimila unita (UNRWA, 2008), il


95% della quale e registrata come rifugiata (Giacaman, Johnson, 2002). Si tratta di


famiglie espulse nel 1948 con il primo costituirsi dello stato sionista dalla regione di


Haifa, attualmente in Israele (Pappe, 2006). Il 47% della popolazione vive al di sotto


della soglia di poverta. Solo il 25% degli adulti ha un lavoro. Il 42.3% della popolazione


ha meno di 15 anni. Il tasso di alfabetizzazione e di scolarizzazione si aggira


intorno al 33% per le donne e al 21% per gli uomini al di sopra dei 12 anni (Giacaman,


Johnson, 2002).


Nell’Aprile 2002 durante l’operazione Defensive Shield condotta dall’IDF (Israeli


Defense Forces), 40.000 metri quadri del campo vennero demoliti. Nell’operazione


persero la vita 52 persone, meta delle quali civili (Graham, 2003). La ricostruzione


del campo e stata recentemente completata ma le condizioni di chiusura e occupazione


militare aumentano lo stato di incertezza e paura. Ogni pomeriggio alle 17.00


dal primo check-point l’esercito occupa il campo profughi che e sottoposto a coprifuoco


permanente fino alle 6.00 del mattino. Spesso le truppe durante il giorno non


lasciano il campo, imponendo improvvisi coprifuoco diurni. Chiunque debba lasciare


il campo profughi per lavoro deve ottenere quotidianamente il permesso


dall’esercito. Risultato e l’impossibilita per molti lavoratori di recarsi sul luogo di


lavoro per gran parte dell’anno.


Guido Veronese, Mahmud Said, Marco Castiglioni


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L’intervento


Nel contesto descritto tra il 2000 e il 2006 la nostra equipe, formata da psicologi e


psichiatri palestinesi e volontari europei esperti nel trattamento di traumi in eta dello


sviluppo, in collaborazione con l’organizzazione non governativa Médicins du


Monde, ha operato in un programma di aiuto sull’emergenza all’interno del campo


profughi di Jenin. L’intervento sulla crisi ha coinvolto circa 600 bambini e 70 famiglie.


Il protocollo terapeutico prevedeva tre momenti:


1. esposizione in vivo dei bambini traumatizzati sul luogo del disastro con la


partecipazione della famiglia (Veronese, Said, in press);


2. intervento domiciliare sulla famiglia in presenza dei figli;


3. invito alla terapia individuale centrata sul trauma di tutti quei membri, non


necessariamente soltanto il bambino esposto all’evento traumatico, che alla


fine dell’intervento di esposizione; avessero mostrato sintomi ascrivibili a


traumi estremi e cumulativi.


A differenza dell’approccio cognitivo comportamentale al trauma, il nostro intervento


consisteva in una fase di esposizione in vivo, arricchita da tecniche narrative


derivanti dalla terapia familiare sistemica (Veronese, Said, 2009). Studiosi hanno


dimostrato come l’esposizione in vivo intesa come la rivivificazione del trauma assistita


da un professionista ha sulla vittima un effetto catartico (Foa, and Cahil, 2002).


Numerosi studi di orientamento narrativo, sia in psicologia clinic ache in psicologia


sociale, hanno rilevato come la ricostruzione dei significati (making sense) attraverso


il racconto sia efficace nel prevenire e controllare effetti traumatici e di lutti


complicati (Barber, 2008c; Neimeyer, 2006). Partendo da questa prospettiva, il nostro


intervento introduceva due elementi di novita: a) l’esposizione in vivo avveniva


sul luogo della tragedia (a differenza di interventi immaginativi); b) l’intera famiglia


della vittima era coinvolta nell’intervento per facilitare la co-creazione di narrazioni


comuni e coerenti, che diano senso agli eventi traumatici. All’interno di questo progetto,


nel novembre del 2006 si svolse un intervento nella scuola primaria


dell’Y.M.C.A. (Young Men Cristian Association) in una classe a seguito dell’uccisione di


un bambino di nove anni avvenuta fuori dall’edificio scolastico durante un rastrellamento


dell’esercito israeliano. Quell’anno, durante la Guerra tra Israele e Libano,


l’esercito israeliano intensifico la pressione sui Territori Occupati (West Bank and


Gaza), causando numerose sofferenze alla popolazione civile e demolendo molte


case.


Nell’ambito di questo intervento sono state condotte 35 interviste individuali in


profondita ai compagni di classe del bambino vittima dell’esercito israeliano.


Durante le interviste veniva chiesto ai bambini di raccontare l’ultimo episodio


traumatico a cui avevano assistito come testimoni o a cui erano stati esposti direttamente.


L’intervista si apriva con la domanda: “Per favore, mi vuoi raccontare


dell’ultima volta in cui hai assistito in prima persona o tu stesso hai subito violenza


da parte dei soldati?”. Le interviste ai bambini costituivano una fase preliminare e


preparatoria al vero e proprio intervento di esposizione narrativa al trauma (Veronese,


Said, 2009).


Le interviste, di durata variabile tra i 45 e i 60 minuti, sono state raccolte nella lingua


locale da un ricercatore e terapeuta bilingue, di madre lingua araba e con un’ottima


conoscenza della lingua inglese.


gruppi nella clinica


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Metodo


In accordo con l’approccio socio-ecologico, le interviste sia cliniche sia di ricerca,


sono il risultato di una conversazione co-authored dove ricercatore e soggetti sono


entrambi ingaggiati in un dialogo sull’esperienza traumatica (Arvay, 2003).


Delle 35 interviste raccolte, sono state scelte le tre qui proposte, in quanto particolarmente


significative e rappresentative di storie comuni a pressoche tutti i bambini


della classe. La maggior parte dei bambini della classe, e piu in generale del campo


profughi di Jenin, ha infatti assistito a episodi di violenza militare o ha subito traumi.


I criteri per individuare le tre storie sono i seguenti: a) i bambini intervistati avevano


subito di recente (dai 3 ai 6 mesi prima) traumi estremi; b) i bambini erano stati direttamente


coinvolti in uno o piu episodi di violenza militare e non solo in veste di


semplici testimoni; c) i bambini dichiaravano di fare parte dei gruppi che inseguono


i carri armati israeliani; d) le famiglie dei bambini e i bambini stessi davano il consenso


informato all’intervista.


Procedura


Analisi delle narrazioni


Le narrazioni prodotte durante l’intervento erano sottoposte ad analisi del contenuto


second oil metodo di Boyatzis (1998)4. Il metodo base consiste


nell’identificazione di nuclei tematici dalle narrazioni, e la classificazione di questi


temi in categorie strutturate attraverso un processo di accordo tra giudici indipendenti.


Le storie audio registrate e trascritte in arabo, venivano tradotte per l’analisi


in inglese da un ricercatore bilingue presente fin dalle prime fasi della ricerca. I passaggi


erano i seguenti: a) un ricercatore procede ad una codifica aperta delle narrazioni


per facilitare l’emersione dei temi critici; b) i temi vengono codificati e raccolti


in categorie strutturate; c) i giudici discutevano e trovavano un accordo sulle cateorie


emerse (Boyatzis, 1998).


Tre storie


Ziad ha dodici anni ed e diagnosticato con un grave disturbo dell’apprendimento:


dislessia e disgrafia. La sua famiglia e molto povera: il padre lavora pochi giorni


all’anno in un programma speciale dell’UNRWA. Ziad e il piu grande di Quattro


fratelli. Insieme al suo compagno di classe e amico Nasser, Ziad ha vissuto una terribile


esperienza traumatica: sono stati coinvolti nell’esplosione di una bomba poco


distante da casa di Ziad. Ziad e Nasser con altri compagni di classe fanno parte della


band ache usa inseguire I carri armati. Nell’incidente perdera la vita il fratello di


Ziad.


4 Il metodo e stato adattato per venire incontro ad un contesto che non permetteva una raccolta


sistematica dei dati.


Guido Veronese, Mahmud Said, Marco Castiglioni


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L’amico di Ziad, Nasser, ha dodici anni. I suoi risultati scolastici sono pessimi. Anche


lui e diagnosticato come un disturbo dell’ apprendimento. Nasser e Ziad giocano


spesso nel campo di fronte alla casa di Ziad. Nasser ricorda di aver sentito un


terribile scoppio, era a pochi metri dal fratello di Ziad. Tutti e tre vengono proiettati


in aria. Alzatosi si accorge che il corpo di uno dei tra amici era in pezzi.


Metqual ha dodici anni e frequenta la sesta elementare. Vive con I genitori e I fratelli.


Il padre e un venditore ambulante di kebab. Metqual ha una pesonalita molto


forte, pur essendo un leader nel gruppo dei pari e riconosciuto dagli insegnanti come


un buo studente, socevole e rispettoso dell’autorita. A scuola e molto bravo. Inseguendo


una Jep dell’esercito, una pallottola perfora la sua gamba, costringendolo


per settimane a letto.


Le macrodimensioni emergenti dalle storie possono essere riassunte nelle tre seguenti


categorie: individuale, familiare e comunitaria, dimensioni strettamente e riflessivamente


interconnesse.


Tabella 1: temi emergenti dalle narrazioni dei bambini del campo profughi


di Jenin, ai livelli individuale, familiare e comunitario


Livelli emergenti dalle narrazioni Temi narrativi


Individuale


Sensazione di imprigionamento e di costrizione fisica


Assenza di stimoli positivi


Stigma delle diagnosi psichiatriche


Sentimenti di paura, rabbia and impotenza


Bisogno di emulare gli eroi


Bisogno di approvazione del gruppo dei pari


Bisogno di gioco per esternalizzare il trauma


Famiglia


Rabbia ereditata trigenerazionalmente


Depressione e impotenza appresa


Perdita di speranza per il futuro


Paura per la sicurezza dei bambini


Sentimenti di umiliazione e impotenza


Demolizione del potere paterno


Emergere della forza della figura femminile


Comunita


esaltazione del combattente come eroe epico


Campo profughi come non luogo rubato alla Palestina


Campo profughi come casa madre violata


Campo profughi come simbolo della tragedia (nabkah)


Campo profughi come simbolo del “diritto al ritorno”


(haqq al- ’awda)


Decostruzione delle istituzioni sociali (es. la scuola)


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Livello Individuale


I temi salienti emersi dalle narrazioni a livello individuale possono essere cosi riassunti:


vissuti di imprigionamento e mancanza di spazio; reazione a stimoli negativi


come esposizione alla violenza militare; reazione alla designazione psichiatrica; emozioni


reattive dominanti (paura, impotenza da una parte, rabbia, spavalderia, aggressivita


dall’altra); tentativo di emulare gli eroi combattenti, adesione al gruppo dei


pari; reazione al trauma.


I bambini riferiscono di sentirsi espropriati della strada, principale luogo di aggregazione.


Dalle loro parole emergono vissuti claustrofobici.


“La strada è disseminata di guai. Uscire di casa a volte è impossibile per giorni.


Per me è come essere legato ad una sedia. Non potere uscire per giorni.”


(Ziad)


La sensazione di perdita della liberta e rinforzata dalle lunghe ore di coprifuoco notturno


e diurno cui la popolazione e costretta. Assenza di stimoli positivi, di luoghi


sicuri in cui giocare intensificano la percezione di minaccia e pericolo (Punamaki,


2008); inseguire il carro armato consente di percepirsi attivi e di attingere a emozioni


positive.


“Quando non possiamo uscire durante il coprifuoco il tempo sembra non


passare mai, trascorro ore davanti alla televisione e so che là fuori i soldati


stanno occupando le mie strade e le case dei miei amici.. Per mesi, dopo


l’ospedale, non ho potuto camminare, dovevo restare in casa..Mi sembrava


di essere in prigione, .. e pensare che anche quando esco di casa non posso


sentirmi libero. […]


Correre dietro al nemico è una sensazione indescrivibile … mi sento come


un cavallo5 al galoppo, imprendibile.” (Metqual)


“Non mi piace stare per strada, ma dove potrei andare altrimenti? A


scuola? Non mi piace, soprattutto dopo la morte di mio fratello, non è sicura..


La strada è una seconda casa, anche se non mi piace stare per strada


tutto il giorno.. mi piace il mercato.” (Ziad)


Attraverso comportamenti rischiosi i giovani tentano di percepirsi come efficaci,


laddove la scuola produce fallimenti, designazioni e stigmi. In essa i ragazzi non


trovano motivazioni all’apprendimento. Andare a scuola in condizioni di occupazione


e violenza militare rinforza sentimenti di minaccia a cui i bambini reagiscono


attraverso condotte rischiose e comportamenti aggressivi. Una conseguenza delle


condizioni di incertezza, associata a poverta e degrado sociale, e il drop-out scolastico.


5 Il cavallo nell’iconografia araba e simbolo di coraggio e fierezza (January, 2009).


Guido Veronese, Mahmud Said, Marco Castiglioni


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“a scuola non va.. non leggo e non so scrivere bene. Gli insegnanti e i medici


hanno detto a mio padre che non imparo..che non voglio impegnarmi, più


passa il tempo e più non mi interessa imparare..”; “..quando scendi per


strada, contro il nemico, tutti ti rispettano: il rispetto che è dovuto ai combattenti.”


(Nasser).


“Spesso non possiamo andare a scuola, e la strada non è mai sicura.. incontriamo


i soldati che ci impediscono di entrare, capita che aprano il fuoco..


anche i miei compagni sono in pericolo, oppure non possiamo uscire dalla


scuola ..quando occupano le strade [durante il giorno]..”


(Metqual).


Il tono emotivo delle narrazioni e fortemente condizionato dalle esperienze traumatiche


e dal desiderio di vendetta che ne deriva. Emozioni dominanti negative, a causa


della costante minaccia della vita, orientano l’attribuzione di significato delle esperienze


(Cacioppo & Gardner, 1999).


“Ho visto la sua gamba..e la scarpa, il resto del corpo più in là coperto di polvere


e sangue.. non riuscivo a fare niente.. non sentivo più nulla, solo un forte


ronzio e avrei voluto gridare..le orecchie mi fischiavano e non riuscivo a distogliere


gli occhi da quella gamba.. il corpo gonfio, deformato..”.. “Bisogna fargliela


pagare, fanno apposta a colpirci.. non posso dimenticare il corpo spezzato


di mio fratello. Tutti i ragazzi devono addestrarsi, saper usare le armi.. per liberare


il paese” (Ziad).


Se da una parte la paura condiziona la vita e orienta le percezioni, le interpretazioni


e i ricordi dei bambini, la reazione al trauma e di spavalderia ed esibizione del coraggio.


Ai comportamenti di rivalsa e vendetta si affianca il desiderio dei bambini di


emulare i combattenti attraverso il martirio. L’emulazione del combattente e un tentativo


di sfuggire alla vittimizzazione attivando comportamenti positivi, strategie di


coping attive come atti eclatanti di coraggio (Punamaki, 2000). Comportamenti “coraggiosi”


consentono, poi, l’affiliazione al gruppo dei pari, dal quale i bambini cercano


approvazione e supporto. Il gruppo favorisce lo sviluppo di competenze sociali,


fortemente valorizzate dagli adulti, che proteggono dall’esposizione alla violenza


militare. L’esclusione dal gruppo dei pari costituisce al contrario, un ulteriore


stigma sociale che puo accentuare vulnerabilita individuale e senso di isolamento.


“..I combattenti sono l’unica nostra protezione ed io voglio essere come loro,


martire..” (Metqual).


“Chi rifiuta di uscire col gruppo, chi scappa o si rifugia in casa non è un


uomo..è un debole..per sfuggire al controllo di mio padre preferisco unirmi agli


altri uscito da scuola. Stabiliamo un punto di incontro dove radunarci…


tutti un giorno saremo eroi..” (Nasser).


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Livello Familiare


Un secondo livello di significati emergente dalle interviste e costituito da temi riguardanti


la famiglia. I genitori sono percepiti dai bambini come pressoche incapaci


di proteggerli e di consolarli. I principali nuclei tematici sono: rabbia transgenerazionale,


depressione, impotenza, assenza di una prospettiva futura, paura per i figli,


sentimenti di umiliazione, demolizione della figura maschile, connotazione positiva


della figura femminile.


Il diminuire della qualita delle funzioni parentali favorisce un aumento delle risposte


aggressive nei bambini sottoposti a violenza politica (Barber, 2001). Spesso le famiglie


non sono in grado di esercitare la propria autorita sui figli e di svolgere nei loro


confronti un ruolo protettivo. Volgendo pero l’attenzione al piano dei significati,


emerge che i bambini compensano l’immagine negativa della famiglia attivando


condotte come l’inseguimento dei blindati. L’azione di coraggio e una modalita di


riscatto delle figure genitoriali private di speranza e piene di rabbia, come emerge


dal seguente brano.


“Vedo la mamma consumarsi dal dolore giorno dopo giorno, il papà spaccarsi la schiena


per pochi soldi e a stento sfamarci.. Non assisterò senza far niente alla sofferenza dei miei


genitori.. non resterò a guardare i miei fratelli cadere uno dopo l’altro..I combattenti sono


l’unica nostra protezione ed io voglio essere come loro, un martire..” (Metqual).


Atteggiamenti punitivi e coercitivi da parte dei genitori hanno come effetto quello


di rinforzare nei giovani comportamenti impulsivi e condotte rischiose (Quota, Punamaki,


El-Serraj, 2007). Gli stessi adulti hanno un atteggiamento ambivalente: da


un lato il loro desiderio di proteggere i figli da luogo a comportamenti punitivi e di


controllo, dall’altra l’intensa propaganda incoraggia attivita di resistenza rischiose.


La rabbia della famiglia verso l’esercito israeliano restituisce ai figli un’immagine disumanizzata


dei nemici, favorendo la messa in atto di comportamenti aggressivi


(Punamaki, 2008).


“..Mio nonno spesso mi chiude in casa.., ma non può trattenermi. So di procurare


dolore a mia mamma ma quando è il momento so come raggiungere gli


altri..è il mio desiderio più grande, vendicare mio fratello e fare felice mia madre”


(Ziad).


“..i soldati non hanno pietà di nessuno, sparano contro chiunque...meritano di


essere colpiti e di essere puniti per la loro inumanità, non hanno un briciolo di


compassione...un giorno saranno messi in fuga …” (Nasser).


La rabbia e l’aggressivita degli adulti, ereditata dalla generazione della “catastrofe


palestinese”, quella dei nonni (Gluck, 2008), contrasta con emozioni di impotenza e


paura per il futuro dei bambini del campo profughi. I genitori, umiliati, costretti a


condizioni di poverta e prigionia reagiscono all’occupazione con risposte ansiose e


depressive. La figura maschile e la piu colpita. Gli uomini non lavorano, o lavorano


saltuariamente e faticano a provvedere al mantenimento delle famiglie.


All’impotenza della figura maschile corrisponde un’immagine materna forte. Le


Guido Veronese, Mahmud Said, Marco Castiglioni


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donne praticano una resistenza silenziosa e i figli identificano la figura femminile,


pur sofferente e preoccupata, come riferimento piu sicuro (Veronese, Said, 2008).


“… Per mia mamma crescerci è la cosa più difficile.. sta facendo tutto da sola…


il nonno ha perso tutto, è vecchio ed istupidito dagli anni.. Mio padre passa


il suo tempo davanti alla televisione fumando sigarette, perché non può lavorare..


oggi l’uomo di casa sono io.. ” (Ziad).


“..per cinque anni è stata mia madre a crescere noi figli, mio padre era in prigione


e non avevamo sue notizie.. era lei a darci, grazie a Dio, da mangiare a


fare da capo famiglia..” (Nasser).


I bambini sono testimoni dell’umiliazione, dell’imprigionamento e spesso anche


dell’uccisione delle figure di riferimento, soprattutto di quella maschile. Nella cultura


araba essa e particolarmente valorizzata, degna di ammirazione e fiducia (Quota,


Punamaki, Miller, & El-Serraj, 2008); la sua delegittimazione equivale a colpire il


fulcro dell’intera societa. I bambini rispondono alla vittimizzazione attraverso il


guadagno secondario procurato dalla resistenza all’occupazione e dall’eroismo, valori


riconosciuti a livello sociale (Quota, Punamaki, El-Serraj, 2008).


Livello della comunità


Le narrazioni dei bambini, quando implicano il livello sociale e comunitario, diventano


molto piu complesse: l’esperienza individuale si stacca dall’episodio traumatico


e si avvicina a narrative comunitarie che riempiono di orgoglio. ““Le narrazioni palestinesi


erano intense, ovvero (non sempre, ma spessissimo) di un’intensita appassionata,


non disperate; piene di attivita, non caotiche; di orgoglio non sgomento; e


di benessere, non ferite” (Barber, 2008: 287).


I temi salienti emergenti dalle interviste mostrano come a livello sociale siano valorizzati


i significati che avvicinano i bambini a pratiche di resistenza, attivismo e lotta


(Barber, 2008c; Punamaki, 2008; Quota, Punamaki, Miller, & El-Serraj, 2008). Nello


specifico: l’esaltazione della figura dell’eroe combattente, l’esproprio illegittimo e la


violazione del campo profughi da parte dell’esercito, il campo profughi come simbolo


della tragedia (nakbah) e del diritto al ritorno; infine l’assenza di istituzioni sociali


protettive.


La comunita glorifica la figura dell’eroe e valorizza la figura maschile come estremo


baluardo contro il nemico. Il genere epico e fortemente valorizzato (Peteet, 2000).


“Quando inseguiamo i carri armati e li colpiamo con le pietre siamo come Nizar Tawalli


e come Zaccaria..6. Quando poi riesci a balzare su un carro e ad afferrarne la


mitragliatrice allora tutti riconosceranno che sei un uomo..”


(Nasser).


“il campo profughi è la nostra casa, è il nostro orgoglio..Il giorno in cui i soldati


verranno cacciati tutti noi dovremo essere in campo e tutti noi dovremo con-


6 Combattenti palestinesi.


gruppi nella clinica


12


tribuire alla vittoria.. il nemico ha i giorni contati ed io farò di tutto per essere


lì quando l’esercito israeliano dovrà lasciare per sempre la nostra terra…”


(Metqual).


Vivere nella strada e rivendicare la proprieta della prigione in cui i bambini sono


stati relegati a causa dei check-point e della chiusura delle frontiere. Il campo profughi


e proprieta dei combattenti, la “casa madre” simbolo della Palestina (Botiveau,


2006). Il campo profughi diventa emblema della tragedia e della deportazione del


1948 (nakbah). Nella retorica palestinese parole come “rifugiato” and “campo profughi”


diventano metafora dell’esilio e della resistenza, con lo scopo di rinforzare la


narrativa del “diritto al ritorno” alla Palestina del mandato britannico (haqq al- ‘awda)


(Farah, 1997; Chatty, 2002).


“Mio nonno è un rifugiato, da Haifa, mio padre è rifugiato e io sono figlio del


campo profughi..sono rifugiato.. Le chiavi della casa di mio nonno sono conservate


dalla mamma, perché un giorno noi tutti ritorneremo..”


(Ziad).


Dalle interviste traspare un precoce coinvolgimento dei bambini nella vita politica


e in pratiche di attivismo come tentativo di attribuire di senso positivo al proprio


isolamento e alla resistenza contro la violenza militare (Barber, 2008c). I bambini


internalizzano relazioni sociali fortemente orientate alla separazione di cio che e bene


da cio che e male e sviluppano cosi attitudini aggressive contro il nemico. Queste


attitudini contribuiscono ad innalzare la percezione di benessere individuale e a


sopperire alle carenze delle istituzioni sociali (per esempio la scuola), che non sono


in grado di proteggere i bambini. Definire chiaramente il nemico e impegnarsi attivamente


per sconfiggerlo restituisce alla comunita e aglli individui il potere di dare


senso e valore ad una condizione cronicizzata di violenza e d’incertezza.


Conclusioni


Se si adotta una prospettiva centrata sull’ individuo e sul funzionamento individuale,


i contenuti emergenti dalle nostre interviste sembrano corroborare un’immagine


dei bambini del campo profughi di Jenin fortemente compromessa dal conflitto.


Limitando l’analisi ad un livello individuale emerge un quadro dei bambini come


sofferenti a livello emotivo e comportamentale: la condotta dell’inseguimento del


carro armato costituirebbe in tal senso un indicatore di disturbo del comportamento,


di sviluppo aggressivo e di aggiustamento negativo alla costante e intensificata


percezione di minaccia (Punamaki, 2008; Srour, & Srour, 2006). A cio si aggiungano


i segni delle patologie trauma correlate, quali PTSD, ansia e depressione che contribuiscono


ad aggravare il quadro complessivo dei bambini del campo (Zakrison,


Shanen, Mortaja & Hamel, 2004). Disturbi cognitivi e dell’apprendimento completano


un’immagine del bambino del campo profughi profondamente stigmatizzata e


patologizzata dal pervasivo processo di vittimizzazione (Khamis, 2006).


Anche a livello familiare, pur con alcune eccezioni, sembra dominare una focalizzazione


sugli esiti patologici e sull’aggiustamento negativo nel bambino agli eventi


Guido Veronese, Mahmud Said, Marco Castiglioni


13


traumatici, all’occupazione militare e al conflitto (Khamis, 2000; Barber, 1999; Garbarino


& Kostelny, 1996). La famiglia non riesce a far fronte alle sofferenze del


bambino perche particolarmente colpita dall’occupazione: case demolite, genitori


delegittimati nel loro status sociale, umiliati, imprigionati e uccisi.


Ma si tratta di una visione parziale. Il rischio della prospettiva individualistica fin qui


descritta e di enfatizzare troppo gli elementi patologici (reificandoli e cronicizzandoli


per mezzi di strumenti diagnostici), a scapito degli aspetti di resilienza che pure


sono presenti nel contesto. Cio accade perlopiu ad opera dei modelli occidentali che


nei contesti traumatici e di violenza politica tendono a centrarsi sugli stati psicologici


problematici e negativi (Gilligan, 2009; Barber, 2008b) e a sottostimare la natura


sociale e interpersonale del conflitto politico e della sofferenza persoanle e collettiva


(Honwana, 2006).


Il significato politico che la comunita attribuisce alla resistenza al nemico consente


invece di rileggere alcune condotte di rischio come l’inseguimento del carro armato,


come parte di quei funzionamenti competenti che consentono al bambino di affrontare


il trauma e di diventare attore sociale attivo in condizioni di incertezza


(Flanagan, & Syversten 2005). I bambini del campo profughi aderiscono precocemente


a un modello di attivismo e di coinvolgimento nella vita civica e politica della


comunita (Sherrod, Flanagan, & Kassimir, 2005). La partecipazione politica consente


ai bambini di restituire alle narrative identitarie individuali aspetti di competenza


e di positivita che la violenza militare, subita direttamente o della quale sono stati


testimoni, tende a frammentare.


Condotte rischiose e comportamenti aggressivi del bambino in una societa pacifica


possono essere letti come segni di svuotamento del sistema morale del bambino e


di perdita di significato (Guerra, & Bradshaw, 2008; Gilchrist , Howarth and Sullivan,


2007). Tuttavia, in un contesto come quello del campo profughi di Jenin,


condotte analoghe assumono senso e sono connotate positivamente da parte del


tessuto sociale e comunitario (Barber, & Olsen, 2008), che orienta i bambini


all’attivismo e individua nella resistenza al nemico la via del riscatto individuale, familiare


e collettivo.


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